domingo, 8 de mayo de 2011

DEL PERCHE' SI PERDONO GLI OMBRELLI (traduzione di Marcela Filippi Plaza)


DEL PERCHE' SI PERDONO GLI OMBRELLI

di Hector Alvarez Castillo

(traduzione di Marcela Filippi Plaza)


Ci sono quelli che, erroneamente, attribuiscono alla distrazione e alla mancanza di percezione l'origine dello smarrimento degli ombrelli mentre, invece, un'analisi molto chiara ci rivela che in comune con gli incidenti e la fatalità, ci sarebbe, alla radice, la disorganizzazione con la quale conviviamo.

Il disordine nasce da motivazioni di diverso carattere, da quelle naturali a quelle cosiddette umane o artificiali. Fin dai tempi dei nostri antenati, destino è il vocabolo più utilizzato, che abbiamo coniato per relazionare quei fenomeni che dinanzi alla nostra percezione ci appaiono singolari. E' pur vero che questi si manifestano in numero significativo. Soffermiamoci e consideriamo: Perché i giorni cambiano? A cosa è dovuto il fatto che non si sappia a cosa attenersi quando si lascia presto il proprio focolare e si fa ritorno la sera molto tardi? Perché fa freddo, o fa caldo, dietro un arbitrio che non riusciamo a comprendere? Nonostante facciamo fatica a crederlo, è lì che iniziano, irrimediabilmente gli smarrimenti di ombrelli. (In questo saremo platonici: c'è un ombrello soltanto, che è lo stesso ombrello che tutti noi perdiamo ogni volta, e che qualcuno poi trova, sorride e con molto riguardo lo custodisce tra le sue cose posandolo dentro l'armadio fino al giorno in cui verrà nuovamente smarrito. Ombrello, altro non è che la nozione o l'idea di ombrello che costantemente viene reiterata nel nostro linguaggio e che ci serve per poterlo trasferire alla realtà).

Se fossimo ordinati, se al mondo le cose funzionassero come Dio comanda; una mattinata senz'acqua sarebbe seguita da un pomeriggio e da una notte senz'acqua, un albeggiare caratterizzato da acquerugiola e acquazzone seguirebbe un pomeriggio e una notte di acquarugiola e acquazzone. Siamo sinceri, mentre viene giù l'acqua dal cielo, chi può cessare di pensare a quel congegno di protezione. Nessuno di noi. Ed è proprio lì che si trova la domanda chiave: Perché voi annualmente smarrite uno, due o più ombrelli? Perché semplicemente non ci mettiamo d'accordo su nulla; quello è il segreto. Se riuscissimo ad organizzarci e riuscissimo a risolvere il punto che un giorno di pioggia è un giorno di pioggia e un giorno di sole, un giorno di sole, non vi si presenterebbe nemmeno l'occasione di smarrire l'ombrello nel taxi-collettivo, metro o treno. Nei bar non si vedrebbero ombrelli appesi alle sedie provocando l'entusiasmo di sguardi anonimi, e nessuno sarebbe tentato di prenderseli. Nel bel mezzo della pioggia, voi, non sareste mai distratti al punto di smarrire lo strumento di salvataggio. Giorno di sole è giorno di sole, giorno di pioggia è giorno di pioggia. Bisogna avere molto chiara quella dicotomia e non farsi trascinare dalle moderne tergiverazioni della morale. La nostra responsabilità e organizzazione ci salveranno. Questa è la norma.

Rammentiamo cosa succedeva in Cina, durante l'epoca d'oro dell'Impero. Lì, le cose funzionavano nel modo in cui corrispondono. L'Imperatore era l'Imperatore, l'operaio, operaio e capoperaio, capoperaio. Grazie a quelle sottigliezze si è potuta costruire la Grande Muraglia dinanzi alla quale ci sentiamo profondamente orgogliosi. In quegli anni remoti gli operai cinesi nei giorni di tormenta e acquazzone usavano un piccolo parasole. Il parasole – successivamente denominato ombrello – aveva un diametro che oscillava tra i novanta centimetri e un metro e venti. Quello degli operai meno qualificati aveva un colore scuro e si attenuava secondo le gerarchie relative alle arti della costruzione. Esisteva, poi, secondo i distaccamenti di soldati operai un grande parasole o parasole maggiore che veniva sistemato per offrire riparo a intere squadre di operai e allo stesso capoperaio che guidava i lavori.

Il parasole – considerando l'estensione del suo diametro di circa otto metri – era trasportato e sostenuto da uno o due cinesi, nutriti specificamente per svolgere questo tipo di compito. Dove mettevano, i cinesi,questi strumenti nei giorni primaverili? Quella è un'altra chiave, lì quando pioveva, pioveva e quando no, no. Questi strumenti erano sotto la custodia di persone addestrate specificamente per svolgere quei compiti,li lasciavano con cura uno accanto all'altro, in caverne segrete costruite ai margini della Grande Muraglia, luoghi, questi, che hanno visto poche mani da quei lontani anni.

Ma questa è un'altra storia e non dobbiamo mescolare né confondere né parlare di tanti temi, di tutti e di tutto allo stesso tempo. Quella non è nostra intenzione né tantomeno nostra abitudine.


Sáenz Peña, agosto 2005
Del libro: "Naif. Del Juego a la Literatura"

De por qué se pierden los paraguas


De por qué se pierden los paraguas


Están los que por error consideran al incipiente extravío de paraguas consecuencia de la distracción y el embotamiento, cuando un sincero análisis nos revela que, a semejanza de la mayoría de los accidentes y de las fatalidades, éste también se debe a la desorganización en la que, tontamente, nos pasamos la vida.
El desorden proviene de causas de toda índole, desde las naturales hasta las llamadas humanas o las artificiales. Desde los tiempos de nuestros ancestros, destino es el vocablo más acabado que hemos acuñado para las relaciones de fenómenos que a nuestra percepción se presentan como singulares. Es verdad que éstos se manifiestan en número significativo. Pero deténgase un instante y considere: ¿Por qué los días son cambiantes? ¿A qué se debe que uno no sepa a qué atenerse cuando abandona temprano el hogar y regresa a altas horas de la noche? ¿Por qué hace frío o hace calor, bajo un arbitrio que no alcanzamos a discernir? Aunque a usted le cueste creerlo, ahí comienzan, irremediablemente, los extravíos del paraguas. (En esto vamos a ser platónicos: hay un solo paraguas que es el mismo paraguas que perdemos todos nosotros una y otra vez, y que alguien encuentra, sonríe y presuroso pasa a guardarlo entre sus cosas, hasta que descansa en el armario y algún día también él lo extravía. No hay más paraguas que la noción o idea de paraguas, que reiteramos constantemente en nuestro lenguaje y desde ahí trasladamos a la realidad.)

Si fuésemos ordenados, si en el mundo algo funcionase cómo Dios manda, a una mañana sin agua, le seguiría una tarde y una noche sin agua, y a un amanecer con llovizna y chaparrones lo continuaría una tarde y una noche con llovizna y chaparrones. Sea sincero, con agua cayendo desde el cielo quién deja de pensar en ese artefacto protector. Ninguno de nosotros. Y ahí está la pregunta clave: ¿Por qué usted pierde anualmente uno, dos o más paraguas? Porque no nos ponemos de acuerdo en nada, ése es el secreto. Si nos organizáramos y resolviéramos que un día de lluvia es un día de lluvia y un día de sol un día de sol, usted no tendría, siquiera, oportunidad alguna de olvidarse el paraguas en el colectivo, subte o tren. En los cafés no se verían colgando de las sillas paraguas que entusiasman miradas anónimas, al tiempo que nadie se anima a tomarlos. Usted en medio de la lluvia jamás va a estar distraído al punto de extraviar la herramienta salvadora. Día de sol es día de sol, día de lluvia es día de lluvia. Hay que tener en claro esa dicotomía y no andar con modernas tergiversaciones de la moral. Nuestra responsabilidad y organización nos hará salvos. Ésa es la norma.

Recuerde cómo era en China, en la época dorada del Imperio. Ahí las cosas funcionaban como corresponde. El Emperador era Emperador, el obrero, obrero y capataz el capataz. Gracias a esas sutilezas se pudo construir la gran muralla que ahora hace que se nos hinche el pecho de orgullo. En esos lejanos años los obreros chinos usaban una breve sombrilla en los días de tormenta y aguacero. La sombrilla –luego denominada paraguas– tenía un diámetro que oscilaba entre los noventa centímetros y el metro veinte. Era de color oscuro para los obreros menos calificados e iba atenuándose según la jerarquía en las artes de la construcción. Y, por destacamento de soldados obreros, existía una gran sombrilla o sombrilla mayor, preparada para proteger cuadrillas enteras de obreros y al mismo capataz que estaba al mando.
Ésta –debido a su extenso diámetro, cercano a los ocho metros– era transportada y sostenida por uno o dos chinos alimentados especialmente para esa tarea. ¿Dónde guardaban los chinos estos implementos en los días primaverales? Ésa es otra clave, ahí cuando llovía, llovía y cuando no, no. Y estos rudimentos pasaban a la custodia de seres especialmente adiestrados para esas tareas, que los dejaban, cuidadosamente, uno al lado del otro, en ocultas cavernas construidas a la vera de la gran muralla, sitios que han hollado pocas manos desde aquellos antiguos años.
Pero eso es otra historia y no debemos mezclarnos y confundirnos y hablar de uno y otro tema, todos y de todo, al mismo tiempo. Ésa no es nuestra intención, esos no son nuestros hábitos.


Sáenz Peña, agosto de 2005
Del libro: "Naif. Del Juego a la literatura".

Publicado en México, en la revista "Algarabía", Nro. 57, Año VII (Junio, 2009)

TOPOLOGIA CELESTE traduzione di Marcela Filippi Plaza


TOPOLOGIA CELESTE

di Hector Alvarez Castillo

(traduzione di Marcela Filippi Plaza)



I teologi hanno interpretato in modo sbagliato l'ubicazione del cielo, del purgatorio e dell'inferno. Errore diffusosi per superstizione, pregiudizio o abitudine che la Fede non ha mai osato correggere. Questa storica e umana elusione del "Credo" esprime il concetto che il purgatorio si trova tra il cielo e l'inferno e che è il luogo dove si ritirano le anime per curarsi, non per castigo, azione che si verifica nel luogo che nella nostra lingua porta il nome simile a quello di infermo e che Dio, con delicatezza creò a tale scopo.

Non essendo l'ubicazione del purgatorio quella che fino ad oggi veniva considerata autentica, si percepisce in realtà, che alle porte del cielo si trova l'inferno e che, quindi, solo e soltanto sotto di esso – per indicare qualche definizione, fisica accessibile al discernimento umano – si trova il purgatorio. Coloro i quali non riescono a permanere in cielo precipitano bruscamente all'inferno, trascinando insieme ad essi pietre e altri fastidi che non sono altro che ostacoli, memoria e tormenti per quei disgraziati. Essi sanno che da qualsiasi punto delle gallerie dell'inferno si può contemplare il cielo infinito, e questo li inabissa fino all'orrore, particolare che nemmeno la Santa Inquisizione è stata mai capace di cogliere.

Riguardo al purgatorio, alcuni mistici hanno divulgato – talora prigionieri di una condotta eretica – che attraverso questo non si va da nessuna parte, ma, grazie alla scienza e con una mano sul cuore, debbo confessare con quasi certezza che questo tema non sia di interesse per quelli del cielo nè per gli improbi dell’inferno.

Palermo, septiembre de 1994
Del libro "Metamorfosis",
Publicado como nota en L'Isola di Prospero.

En español: http://literaturaalpaso.blogspot.com/2010/01/topologia-celeste.html

 

martes, 3 de mayo de 2011

Carta de Ernesto Sabato a Luis Noseda


Carta de Ernesto Sabato a Luis Noseda


Carta de Ernesto Sabato a Luis Noseda
Transcripción: Héctor Alvarez Castillo


La carta que aquí transcribimos aparece en el libro de Luis Noseda “Memorias de un soñador”, y surge de un pedido realizado por este escritor y periodista al autor de “Sobre héroes y tumbas”. Los temas que aborda Sabato y la síntesis con la que los comenta, le otorgan a este testimonio un gran valor biográfico.



Me pide usted, Noseda, que le diga algo a propósito del barrio, de este Santos Lugares en que he vivido toda mi existencia literaria; de donde salieron todos mis libros y donde mis dos chicos pasaron su infancia y su adolescencia. Pensé que cuando saliera de este vértigo en que vivo en estos últimos tiempos le escribiría algo sobre uno de los problemas que más me obsesiona: el de esa calamidad del siglo XX que es la megalópolis, la ciudad monstruosa y despersonalizada, y de cómo una comunidad a la escala del hombre como esta de Santos Lugares, o lo que todavía sigue siendo cualquier barrio tranquilo de Buenos Aires, es lo único que vale la pena conservar, la sola forma de convivencia que nos ha de salvar de la total alienación.
Pero, ahora, mientras escribo estas líneas deshilvanadas al correr de la máquina, se me ocurre que tal vez sea mejor recordar aquí la pequeña historia de mi llegada a la calle Bonifacini, a la antigua calle Bonifacini.
Pero no estoy aquí por azar, porque no hay azar en las cosas del espíritu: hay destinos, hay propósitos, concientes o inconcientes. Llegué a este lugar porque huí de esa ciencia que es precisamente la culpable de esta colosal crisis en que se debate la humanidad. Y si vine a vivir a esta casa fue justamente porque ya en aquel tiempo pensé que la gran ciudad era el producto último (y siniestro) de esta civilización tecnológica.
No es un secreto que estudié física en La Plata y que después del doctorado me becó el profesor Houssay para trabajar en radiaciones atómicas en París, con la hija de Madame Curie. ¡Pobre Houssay! Nunca me perdonó mi abandono de la ciencia y durante quince o veinte años me negó el saludo, me consideró como una especie de traidor, hasta que un día, en alguna reunión no sé a raíz de qué, acercándome a él le pregunté si no era ya bastante, si después de haber publicado cinco o seis libros no había hecho lo suficiente para merecer su perdón. Y sonriendo levemente me tendió la mano y así quedamos en paz. Cuando fui a París en realidad yo había empezado la quiebra espiritual que me alejaría de la ciencia y aunque siempre me fascinó lo que la física y la matemática tienen de creación casi fantástica (una teoría como la relatividad tiene la belleza de “La pasión según San Mateo”, de Bach, o la hermosura de una catedral gótica), había llegado a la conclusión que de esa actividad purísima del espíritu salía la tecnología y de ésta la cosificación del hombre. En fin, no diré aquí en cuatro palabras, a la disparada, lo que escribí en todo un libro publicado en 1951, “Hombres y engranajes”, obra en que precisamente describo el proceso mental y espiritual que me llevó al abandono de aquello que en mi adolescencia me había deslumbrado, aquel orden platónico del orbe matemático que buscaba en medio de mi tumulto interior, de mis ansiedades y angustia de adolescente.
De modo que, como le estaba contando, al llegar a París, en 1938, comprendí que aquello no tenia ni pie ni cabeza y que pronto dejaría de lado aquello por lo que Houssay soñaba. Y así, mientras de día trabajaba con el uranio en el Laboratoire de la calle Pierre Curie, de noche me mezclaba con los surrealistas, del mismo modo que el Dr. Jekill se transformaba en el detestable Mr. Hyde. Y comencé a escribir una novela denominada “La fuente muda” de la que sólo publiqué unos fragmentos, mucho más tarde, en la revista SUR.
Vino la guerra y volvía a La Plata, y aunque trabajaba y enseñaba la teoría de los cuántos y la relatividad en el Instituto de Física de la Universidad, en secreto trabajaba en literatura y pensaba cómo y cuánto abandonar para siempre aquellas “altas torres de mi adolescencia”. Pasó una serie de cosas que no tendré aquí ni tiempo ni espacio para narrar, pero lo cierto es que un día resolví quemar las naves, como se dice.
Era por el año 1943, vivíamos con Matilde y con Jorgito (que tenía unos cuatro años) en la calle Tagle, cerca de lo que ahora es el Automóvil Club. Cuando decidí dejar todo, con el apoyo, naturalmente, de mi mujer, le pregunté a mi amigo Enrique Wernicke si no sabía de alguien en Córdoba que me alquilase un rancho, y me dijo que sí, hablándome de alguien que yo no conocía personalmente pero del cual todo el mundo sabía su nombre, por haber sido el dueño de una empresa de filmación: don Federico Valle. Me contó que se había arruinado con el incendio de sus laboratorios, que no tenía seguro (conociéndolo después, comprendí que era muy natural en él) y que desde 1938 vivía en un barrio de Buenos Aires, pero que pasaba largo tiempo en un rancho, en plena sierra, cerca de Carlos Paz. Me dijo que en ese momento estaba en Buenos Aires y que le preguntaría si era posible alquilarme su rancho.
Y así a los pocos días me trajo a un hombre de barba blanca, que parecía un profesor de película, sonriente y reservado. Sí, estaba dispuesto a alquilarme el rancho. Y él ¿dónde viviría? En una carpa, tenía una carpa como depósito y se podía acomodar allí. Le pregunté en cuánto me alquilaría el rancho y me dijo que en quince pesos mensuales. Hice mis cálculos (me iba con la mitad de un sueldo de profesor) y le dije bueno. Y así nos fuimos.
Era sobre el río Chorrillos, a una legua de lo que entonces era Carlos Paz. Y digo entonces porque por aquel tiempo era un pueblito. No teníamos, claro está, ni luz ni vidrios en las ventanas. Y aquel invierno hubo para desdicha catorce grados bajo cero, hasta el punto que el río Chorrillos se heló. Nos teníamos que calentar como el mismo sol de noche con que nos alumbrábamos, y a eso de las siete nos metíamos en la cama, de puro frío que hacía.
Pasamos casi un año, y allí escribí mi primer libro, “Uno y el Universo”, que se publicó en 1945. Un librito que es una especie de balance de mi vida anterior y algo así como el tránsito a lo que fue mi vida posterior.
Debo decir que durante ese período nos venían a ver, de vez en cuando, el director del Observatorio de Córdoba, el profesor Enrique Gaviola, astrofísico famoso en el mundo entero, del cual yo había sido asistente en La Plata, y el profesor Guido Beck, emigrado judío, ex alumno brillante de Albert Einstein. Los dos trataban de convencerla a Matilde. Pero no pudieron. En rigor ellos tenían razón, porque ni siquiera sabía lo que yo era capaz de hacer en literatura, y abandonaba por una especie de fantasma que finalmente podía ser un simple espejismo.
Dejé entonces la ciencia para siempre, no quise ni siquiera guardar un libro de física y matemática en mi biblioteca; los regalé a mis ex compañeros y discípulos, uno de los cuales fue José Balseiro, cuyo nombre lleva ahora el Instituto de Bariloche.
Había que volver a Buenos Aires. ¿Pero adónde? Don Federico me ofreció alquilarme una casa que estaba –me dijo– en Santos Lugares. ¿Qué era eso? Jamás había oído hablar de tal sitio. Nos vinimos juntos desde Córdoba y me mostró la casa, y aquí nos quedamos. Le pregunté donde viviría él. Me dijo que viviría en el sótano. Siempre había tenido vocación por cuevas, subterráneos y cosas así. Allí se improvisó un pequeño departamentito y una pieza arriba, y así vivimos con Federico y con su hija Marina o Marinette (como él la llamaba), durante muchísimos años. Cuando Marina se casó con Dacal (que supo jugar al basquet en el club Defensores), se hicieron un departamento de la parte de atrás. Finalmente, aquello les quedó chico con el nacimiento de sus hijos y se fueron a vivir por aquí, cerca de Villa Lynch. Y yo le compré la casa a don Federico.
Y aquí estoy, para siempre. De aquí me sacarán en el cajón. Y me sacarán únicamente así, porque para mí Santos Lugares es ahora mi patria chica. Vine cuando todavía se encontraban por aquí boliches con mostrador de estaño. Así hubiese querido que permaneciera, pero sé que es imposible. Espero, al menos, que no construirán horrendos edificios torres, para que también aquí nazcan y crezcan chiquitos que sepan lo que es el pasto, las gallinas, los gatos, los grandes patios, las parras y las glicinas. ¿El sueño de un viejo reaccionario? ¿O la imaginación de alguien que ve más lejos que los que creen que el precio del metro cuadrado de terreno en más importante que el precio de un ser humano?